Lo chiamavano Petisso, ma Pesaola era un gigante
Lo chiamavano tutti “Petisso” (il piccoletto), ma in realtà era un gigante. Frizzante, caustico, serbatoio inesauribile di aneddoti e battute, amante delle carte e delle sigarette, un vizio che non è mai riuscito a togliersi, Bruno Pesaola è stato uno dei personaggi più scaltri, sagaci e smaliziati del calcio mondiale.
Nato a Buenos Aires nel 1925, da padre marchigiano e da madre galiziana, emigrati in Sudamerica a cercar fortuna. Il suo babbo faceva il calzolaio, ma lui aveva in testa soltanto il pallone e, nonostante la sua taglia esile, riuscì a sfondare come ala-attaccante, dotato di grande velocità che gli permetteva finte funamboliche. Dal River Plate passò alla Roma nel 1947, sbarcando in Italia e innamorandosi della “Dolce Vita” finché Aredio Gimona non gli spezzò la gamba con un’entrata assassina. L’avversario fu squalificato a vita, ma lui lo perdonò pubblicamente e la squalifica fu ridotta a un anno. Poi Novara, con Silvio Piola, e il matrimonio con Ornella, allora Miss Sanremo. Infine Napoli, il suo grande amore: 240 partite e 27 reti.
Dal 1962 l’inizio della carriera di allenatore, partendo dalla Scafatese, ma Achille Lauro lo volle subito per salvare il suo Napoli dal baratro della serie C. E lui, non solo salvò la squadra, ma conquistò addirittura la promozione in serie A, vincendo pure la Coppa Italia, la prima alzata al cielo da una squadra che milita nel torneo cadetto.
Inguaribile scaramantico, indossava il famoso cappotto portafortuna di cammello anche d’estate. L’approdo a Firenze fu quasi casuale, grazie al presidente Baglini che lo volle perché “è uno a cui piace rischiare”. In realtà Pesaola rischiava il giusto, ma riuscì a convincere i giocatori viola che potevano battere chiunque e così fu. La cavalcata viola del 1968-69 terminò con un clamoroso Tricolore che consegnò alla storia la Fiorentina ye ye, forse l’espressione più riuscita di sempre di un calcio fresco, moderno e vincente.
Uno dei miracoli del Petisso, come la Coppa Italia del Bologna del 1974 e la salvezza del Napoli del 1983, in coppia con Gennaro Rambone.
Poi la sua “seconda” vita fatta di alcuni investimenti sbagliati (un bar, un’azienda di scarpe e una vetreria) e una denuncia per evasione fiscale che gli costò anche 10 giorni di prigione.
“Pochi sanno di calcio quanto me –amava dire – avessi avuto lo stesso fiuto per gli affari oggi sarei miliardario”. Aveva ragione Pesaola: in pochi sapevano di calcio quanto lui e oggi, nel giorno in cui avrebbe festeggiato il suo 94 anni, a Firenze è ricordato per sempre come l’ultimo tecnico capace di regalare lo Scudetto alla Città del Giglio.
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