Petisso Pesaola, lo stratega col cappotto che regalò il tricolore a Firenze
Bruno Pesaola oggi (28 luglio) avrebbe compiuto 92 anni. Frizzante, caustico, serbatoio inesauribile di aneddoti e battute, amante delle carte e delle sigarette, un vizio che non è mai riuscito a togliersi, Pesaola era uno dei personaggi più genuini e pittoreschi del mondo del pallone di casa nostra.
Tutti lo chiamavano “Petisso” cioè “Piccoletto”, perché era alto soltanto 1 metro e 65 centimetri, un soprannome che gli fu affibbiato in Argentina e che si è portato dietro attraverso tutti i suoi trionfi, prima da giocatore, poi da allenatore, fino all’ultimo dei suoi giorni.
Nato a Buonos Aires nel 1925, da padre marchigiano e da madre galiziana, emigrati in Argentina a cercar fortuna. Il suo babbo faceva il calzolaio, ma lui aveva in testa soltanto il pallone e, nonostante la sua taglia esile, riuscì a sfondare come ala-attaccante, dotato di grande velocità che gli permetteva finte funamboliche.
Dopo il debutto nelle giovanili del Dock Sud, viene notato dagli osservatori del River Plate che lo prelevano a 14 anni per proiettarlo verso una grande carriera calcistica.
Lo sbarco in Italia avviene nel 1947, a Ciampino. La prima maglia indossata è quella della Roma, per 3 stagioni, dove s’innamorò della “Dolce Vita”. Finché un gravissimo infortunio, la frattura di tibia e perone dovuta a un’entrata assassina di Aredio Gimona, nel corso di una sfida col Palermo, sembra costargli la carriera. L’avversario fu squalificato a vita, ma Pesaola lo volle perdonare pubblicamente e così la squalifica fu ridotta a un anno.
Il “Petisso” non si arrende e non smette certo di giocare, anzi si trasferisce al Novara, dove duetta in campo con Silvio Piola e sposa Ornella, l’allora Miss Sanremo.
Poi il passaggio al Napoli, per la cifra record di 33 milioni di lire. Siamo nel 1952 e alla città partenopea, da quel momento, si legherà per sempre, ben oltre la sua carriera di calciatore: 240 partite e 27 reti, fino al 1960.
Appese le scarpette al chiodo nel 1962 inizia la carriera di allenatore, partendo dalla Scafatese, ma è solo una breve gavetta perché dopo pochi mesi lo chiama Achille Lauro per salvare il suo Napoli dal baratro della serie C. E lui, non solo salva la squadra, ma conquista addirittura la promozione in serie A e vince pure la Coppa Italia, la prima alzata al cielo da una squadra che milita nel torneo cadetto.
Inguaribile scaramantico, fino a indossare il suo immancabile cappotto portafortuna di cammello anche d’estate, Pesaola riusciva spesso a mandare in confusione i suoi colleghi-avversari grazie alla proverbiali furbizie tattiche, come quando gridava alla sua squadra di arretrare, ma con la mano faceva gesto di attaccare.
L’altra tappa fondamentale della sua vita, dicevamo, è Firenze: in riva all’Arno passa alla storia come il condottiero del secondo e, fino a oggi ultimo, Scudetto della Fiorentina. Una cavalcata bellissima, conclusa con la vittoria di Torino contro la Juventus dell’11 maggio 1969 che fece ubriacare di gioia i tifosi viola per il tricolore della cosiddetta Fiorentina ye ye, una delle espressioni più riuscite di sempre di un calcio fresco, moderno e vincente.
La squadra viola segna poco, solo 38 reti, ma subisce pochissimo e non perde praticamente mai (una sola sconfitta in stagione). Pesaola la fonda su alcuni pilastri: Brizi e Ferrante in difesa, “Picchio” De Sisti, “Ciccillo” Esposito e Merlo a metà campo, Amarildo e Maraschi in attacco. Con la variante “Cavallo Pazzo” Chiarugi sulla fascia. Il risultato è uno strepitoso mix che stupisce l’Italia intera.
Tra i successi c’è anche una Coppa Italia vinta con il Bologna nel 1974 e la sua carriera di tecnico conosce anche una tappa esotica: allena il Panathinaikos nel 1979-80. Chiude di nuovo a Napoli con la miracolosa salvezza del 1983 in coppia con Gennaro Rambone.
Poi la sua “seconda” vita fatta di alcuni investimenti sbagliati (un bar, un’azienda di scarpe e una vetreria) e una denuncia per evasione fiscale che gli costa anche 10 giorni di prigione.
“Pochi sanno di calcio quanto me –amava dire – avessi avuto lo stesso fiuto per gli affari oggi sarei miliardario”. Aveva ragione Pesaola: in pochi sapevano di calcio quanto lui e davvero in pochi sono riusciti a lasciare ricordi indelebili, come ha fatto lui, tra Napoli e Firenze.
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