Kalinic non sbaglia un colpo Firenze si gode il suo nuovo fenomeno
Il croato, arrivato in sordina, è già l’uomo del momento. E il duello con Babacar continua.
Sorpassi e controsorpassi, come se ogni volta fosse l’ultima curva. Da una parte Babacar, il giovane senegalese diventato grande con una sola maglia indosso, viola (a Modena, in fondo, era in prestito), e Nikola Kalinic, il croato pallido che, a differenza di Mario Gomez, il ciuffo non se lo aggiusta mai ma pensa solo a recuperar palloni e a timbrare il cartellino con la rete. Tre gol a San Siro, complessivamente fin qui quattro reti in campionato con soli otto tiri avuti a disposizione: in media, il 50% di probabilità di battere il portiere avversario. Lui, forse più di Babacar, ha una questione in sospeso con l’Europa: segnò a Varsavia, nella notte della finale persa contro il Siviglia, illudendo il popolo ucraino di Dnpropetrovs’k, e si è ripetuto, sempre regalando false illusioni, anche contro il Basilea. Adesso vuole tornare a gioire fuori dai confini nazionali pure lui. Sousa deciderà solo all’ultimo chi mandare in campo dal primo minuto, consapevole di avere in mano due pezzi d’artiglieria altrettanto pesanti da schierare. O anche da far subentrare.
Baba potrebbe ritrovare la maglia da titolare subito. Contro l’Inter non è nemmeno entrato e, forse, quella contro i portoghesi potrebbe essere l’occasione giusta per tornare a segnare in Europa, lui che di fatto la scorsa stagione con la rete alla Dinamo Minsk ha riaperto i giochi nella corsa verso la semifinale. Baba ha fatto tutto in fretta. Compreso l’esser diventato quel bomber di cui la sua squadra aveva da tempo bisogno. Di quel ragazzone d’ebano arrivato poco più che bambino e diventato uno dei più corteggiati sul mercato, la città s’è innamorata subito. Per quel sorriso contagioso e pure per la sfacciataggine con cui si è presentato nel calcio che conta: esordio con gol, in Coppa Italia col Chievo poco più che sedicenne. Prandelli lo ha protetto come un padre, non dimenticando mai di tirargli le orecchie. Qualche scudisciata e pochi applausi. Pure all’indomani del primo gol in Serie A, tre giorni dopo il suo diciassettesimo compleanno. Mihajlovic, per stuzzicarlo, cercava sempre il nervo scoperto: «Deve svegliarsi, è ancora un bambino». Il tutto condito da qualche sano calcio nel sedere. Montella, invece, era quello degli “schiaffetti”, ispirati dalle guance paffute.
Kalinic ventisette anni, arrivato senza fanfare, bianco-latte e una catenina al collo ha già conquistato tutti. Di certo ha seppellito con una pietra sepolcrale lo sbiadito ricordo di Gomez che al massimo di gol tutti insieme ne ha fatto due e che in tutto in 47 partite spalmate su tre stagioni ne ha messi insieme giusto 14, meno del triplo di quanto festeggiato fin qui tra Coppa e campionato dal ragazzone croato. Fin dall’inizio, in campo si è battuto con il coltello fra i denti. Piace per questo, perché fa salire sempre la squadra, accetta il lancio lungo, nasconde la palla oppure sa farla arrivare al posto giusto. Di piatto, di sponda, di testa, schizzata, appoggiata, fatta filtrare. Un centravanti per tutti. Per certi movimenti ricorda forse il primo Skuhravy e per la capacità tattica anche Albertino Bigon. Ha iniziato guadagnandosi una “green card” nella squadra viola. D’altra parte Paulo Sousa lo voleva già da un paio di anni. Con la tripletta di San Siro, il rigore procurato e l’espulsione di Miranda (dopo quella di Ely del Milan alla prima giornata) si è spalancato le porte del paradiso (viola) da solo.
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